L’investimento immobiliare, nell’indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani nel 2020

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All’interno dell’edizione 2020 dell’Indagine sul Risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani scaturita dalla collaborazione tra Intesa Sanpaolo e il Centro Einaudi, si prende in esame anche il patrimonio immobiliare delle famiglie.

L’Indagine del 2019 aveva messo in luce alcune tendenze.
Era ritornata la voglia di case, che è quasi sempre un buon sintomo: infatti, da un lato l’industria delle costruzioni è uno dei comparti a più alta attivazione intersettoriale interna, e dunque con maggiore effetto moltiplicatore in termini di fatturato e di prodotto per euro investito.

Dall’altro, il riemergere della voglia di case era segno di una ritrovata progettualità per il futuro.

È il caso di precisare che i dati sono stati rilevati prima dell’emergenza sanitaria, la quale potrebbe avere in parte modificato, temporaneamente o stabilmente, le aspettative, i programmi e gli atteggiamenti delle famiglie.
Il tema non poteva essere trascurato, poiché le difficoltà che tutti abbiamo vissuto possono produrre mutamenti di percezione e abiti operativi con conseguenze economiche strutturali, o comunque di lunga durata.

Un supplemento d’indagine, comunque, è stato svolto per verificare se questa emergenza abbia prodotto qualche repentino cambiamento su alcune, necessariamente limitate, variabili.


La casa ha un valore che va oltre la dimensione economica
In ambito di diffusione della ricchezza immobiliare, ci sono alcune conferme: in media, il 77,6% della popolazione vive in un’abitazione di proprietà.
Questo valore è più basso prima dei 35 anni (48,6%), ma oscilla intorno all’80% per le età successive.
L’analisi di ulteriori sottogruppi mostra come la proprietà della casa possa essere in qualche modo legata a una percezione di stabilità familiare ancor prima che a logiche di tipo finanziario: meno del 65% di coloro che non sono coniugati o conviventi vive in immobili di proprietà, contro l’82% di chi, al contrario, è sposato o ha una stabile convivenza.

Il fatto è sicuramente correlato con l’età, ma la causalità sembra più legata alle condizioni familiari, visto che per i divorziati o separati la quota scende al 61,5% e per le famiglie con quattro componenti raggiunge quasi l’88%.

Il 21,4% degli intervistati possiede immobili diversi dalla casa di abitazione.
Tale quota è decisamente inferiore per i più giovani (4,1% tra i 25 e i 34 anni e 11% tra i 35 e i 44 anni) e leggermente più alta per i più anziani (25,5% tra i 55 e i 64 anni e 27,3% dopo i 65 anni).

Solo poco più di un quinto degli intervistati (20,7%) sarebbe disposto a vendere la propria casa per poter vivere meglio (ad esempio nella vecchiaia).
Il dato, peraltro, è leggermente più basso nelle classi di età più anziane (circa il 18%), il che, evidentemente, significa che la proprietà della casa è legata a funzioni che vanno oltre il mantenimento del tenore di vita, sicché l’abitazione non è considerata alla stregua di qualsiasi altro asset finanziario.

D’altra parte, anche l’utilizzo del prestito ipotecario vitalizio, che consentirebbe di continuare a usufruire dei servizi dell’immobile pur rendendo disponibile liquidità per il consumo, non è accolto con grande entusiasmo.
Solo il 10,4% del campione lo trova una buona idea, valore che scende all’8,8% nella classe di età più anziana, che dovrebbe essere la più interessata, e supera il 15% solo nella fascia d’età più giovane, che è anche, però, la più lontana dal momento in cui potrà effettivamente prendere una tale decisione.

Nel complesso, lo strumento è visto più come un salvagente in caso di estrema necessità (34,8%) che come un’ordinaria modalità di gestione del proprio profilo di consumo lungo il ciclo di vita.

La generazione dell’euro si differenzia rispetto al resto del campione per una minore quota di proprietari: 59,7% contro l’80,2% della non euro generation per la propria abitazione, e 4,4% contro il 23,4% per gli altri immobili.

Il 42,1% dei «figli dell’euro», contro il 34,9% del resto del campione, sarebbe disposto, in caso di estrema necessità, a ricorrere al prestito ipotecario vitalizio, e circa il 14%, contro il 10% degli altri, lo trova una buona idea.

Si cerca di capire, poi, quali siano le ragioni per le quali la casa di abitazione sembra assumere funzioni che la rendono «qualcosa di diverso» rispetto a un semplice valore patrimoniale.
In effetti, le due ragioni principali hanno ben poco di finanziario: tra coloro che non sono disposti a vendere la propria casa per vivere meglio, quasi la metà (49,1%) dichiara che la ragione è di tipo affettivo, o semplicemente, di non voler essere costretti a lasciare la propria casa.

Non ci sono particolari differenze tra fasce d’età, eccezion fatta per i più giovani, che probabilmente hanno da poco raggiunto il traguardo di un’abitazione di proprietà e tra i quali queste risposte costituiscono il 57,7%.
Per contro, solo il 22% degli intervistati ritiene di non aver bisogno di vendere per vivere meglio, valore che scende nelle età centrali (al 15,4% nella fascia 35-44 anni e al 19,1% in quella successiva) ed è, al contrario, più alto della media tra i più anziani (25,8%).

Il motivo ereditario interessa oltre un quinto del campione (22,7%) ed è, curiosamente, più presente (24,7%) nelle fasi iniziali di costruzione della famiglia, ossia fra i 35 e i 44 anni, rispetto alle età più anziane (23,2%).

La volontà di lasciare un’eredità potrebbe essere una delle ragioni dello scarso impiego del prestito ipotecario vitalizio; d’altra parte, ci pare anche di dover rilevare che lo strumento si rivolge a quelle fasce d’età che meno ritengono di aver bisogno di liberarsi dell’immobile per vivere meglio.

Sotto questi profili, la generazione dell’euro si differenzia principalmente per la minore presenza del motivo ereditario (12,6% contro 23,4), per la maggiore importanza attribuita al valore affettivo (25,4% contro 19,7) e per uno spiccato ottimismo sul futuro, con un’età anziana ancora relativamente distante.

Quasi un quarto, contro poco più di un quinto del resto del campione, ritiene che non avrà bisogno di vendere la casa per vivere meglio.
Solo il 5,3% degli intervistati teme di ricavare dall’immobile meno del suo valore effettivo, un dato che sale all’8% tra i 45-54enni e all’8,7% tra i 35-44enni.

In media, il valore stimato della propria abitazione è di 188.500 euro: la generazione dell’euro stima un valore più basso (169.250 euro), mentre la fascia di età tra i 45 e i 54 anni è quella che stima il valore più elevato (197.025 euro).


Siamo giunti ad un punto delicato.
Quanto ha reso l’investimento immobiliare? Quanto sono esposte le famiglie? Ne sono contente? E, soprattutto, hanno fatto bene i conti?

Riguardo i principali indicatori del settore dell’edilizia abitativa, fatto pari a 100 il valore del 2007 (del 2010 per i prezzi delle case), si racconta la storia della crisi del 2008 e della doppia recessione che si è avuta nel nostro Paese nel 2012.
Gli investimenti in nuove abitazioni si sono ridotti del 67,4% e hanno iniziato a riprendersi, solo dal 2017, a un passo decisamente più lento rispetto a quello della caduta.

La superficie utile abitabile costruita ex novo si è ridotta dell’81% fino al 2015 e poi ha cominciato a risalire, ma ancora oggi è pari a poco più di un quarto di quella del 2007.
A fronte di questa contrazione dell’offerta, sul lato della domanda le consistenze dei finanziamenti alle famiglie per l’acquisto dell’abitazione hanno ripreso a salire a partire dal 2015 e sono oggi più alte del 46,8% rispetto al 2007.

D’altra parte, dal 2013 sono tornate a crescere anche le transazioni, che hanno recuperato buona parte della riduzione raggiungendo il 76,8% rispetto ai valori 2007.
A seguito di questi andamenti – ossia di una contrazione dell’offerta molto lontana dall’essere recuperata e, all’opposto, di un buon recupero della flessione registrata dalla domanda – è lecito attendersi che sul fronte dei prezzi, e dunque del rendimento in conto capitale dell’investimento nella propria casa, i segnali non siano eccessivamente allarmanti.

In effetti, le abitazioni nuove hanno un prezzo sostanzialmente pari a quello del 2010, mentre le abitazioni esistenti hanno perso il 21% tra il 2010 e il 2019: una discesa, peraltro, che sembra essersi quasi del tutto arrestata a partire dal 2018.
È abbastanza evidente che, a partire dalla crisi del 2008, coloro che erano già proprietari, ma anche chi ha acquistato un’abitazione, in conto capitale non abbiano guadagnato dal loro investimento.
Non hanno però neanche perso moltissimo, soprattutto se si considerano e valorizzano i servizi resi dalla propria casa.

In effetti, quello immobiliare è tuttora considerato un buon investimento.

Nel 2007 più di quattro quinti del campione (83,2%) riteneva che quello immobiliare fosse un investimento sicuro.
Dopo la crisi, e soprattutto dopo il double dip del 2012, con l’impennata dell’imposizione fiscale sugli immobili, seguono tre anni di delusione; dal 2016 si assiste però a un recupero, e a oggi quasi i due terzi del campione (66,3 per cento) sono tornati a fidarsi degli immobili.

Le spese di gestione e le imposte preoccupavano nel 2007 il 15 per cento degli intervistati; la delusione successiva al 2012 ha fatto salire tale quota fino a oltre un quarto nel 2015, oggi siamo al 20%.
Poter risparmiare l’affitto è una componente del rendimento dell’investimento nella propria casa: la frazione di chi ritiene importante questo aspetto si mantiene stabile a livelli di poco inferiori al 60% del campione, fatto salvo il quadriennio critico 2012-2016, ed è oggi al 57% (pressoché lo stesso livello del 2007: 57,5%).

Probabilmente grazie alla discesa dei prezzi, e anche alla ripresa delle erogazioni di finanziamenti alle famiglie, solo l’11,6% del campione dichiara di non potersi permettere di investire in immobili, pur ritenendoli un buon investimento; nel 2007 si trattava di oltre un terzo degli intervistati.
La scarsa liquidità degli immobili preoccupa meno di un decimo del campione: è il valore più basso dal 2004, al quale si accompagna, per quasi un quarto dei soggetti, l’idea che gli immobili possano essere utilizzabili da anziani per avere una rendita (24,3%, il valore più alto da quando è stata inserita la possibilità nel 2017).

Insomma, pochi giudicano una buona idea dare la propria casa in garanzia in età anziana per ottenere liquidità attraverso il prestito ipotecario vitalizio, ma una percentuale discreta del campione investirebbe in immobili per ottenerne una rendita da anziani.
Se consideriamo il fatto che un immobile è ritenuto il miglior modo di lasciare un’eredità ai figli da ben il 57,8% del campione (era il 37,7% nel 2012), cominciamo a renderci conto di come gli intervistati attribuiscano all’immobile una tripla funzione.
Ovvero quella legata al risparmio dei canoni di locazione, quella di «riserva di valore» in prospettiva ereditaria e quella, infine, di risparmio previdenziale, senza che l’una escluda necessariamente l’altra.

È forse per questo che solo il 9,1% del campione afferma che l’investimento immobiliare «non conviene più di altre forme di investimento»: un dato storicamente basso, il cui picco è stato raggiunto nel 2014 con il 16,5%.
Va sottolineato che a partire dalla crisi del 2008, e soprattutto dopo la doppia recessione del 2012, si assiste a una maggiore consapevolezza del rischio insito anche nell’investimento immobiliare: nel 2007 il 68,3% del campione riteneva che l’immobile fosse il miglior investimento possibile, percentuale ridotta al 40,6 nel 2016 (ultimo anno in cui la risposta è stata inserita nel questionario).

L’esame degli stessi dati per sottocampione, mostra una singolare uniformità di vedute sull’investimento immobiliare: per quasi tutte le categorie, i valori sono sostanzialmente in linea con quelli medi.
La generazione dell’euro si distingue però secondo alcune significative dimensioni: chi è diventato maggiorenne con la nascita dell’euro è più lontano dalla realizzazione del sogno di investire in immobili, visto che il 24% dichiara di non poterselo permettere (contro l’11,6% in media e il 9,9% delle generazioni precedenti) e, forse proprio per questo, ne apprezza più della media alcune caratteristiche, come poter risparmiare sull’affitto (70,4 contro 57%).

Anche la funzione previdenziale è più apprezzata della media (28,6 contro 24,3%) e, se unita a quella di integrazione del reddito, raggiunge il 47,5%, contro il 43,6 della media complessiva.

L’euro generation è meno preoccupata per le imposte e i costi di gestione (15,1%, contro una media del 20) e meno degli altri ritiene che l’immobile equivalga ad altre forme di investimento (15,1%, contro il 20,3 della non euro generation).
Una caratteristica particolare è la minore attenzione della generazione dell’euro alla funzione ereditaria, citata solo dal 35,% del campione, contro il 57,8% in media e il 59,4% della non euro generation.

In sintesi, benché unita a una progressiva consapevolezza degli elementi di rischio, troviamo una prevalenza di giudizi positivi sull’investimento immobiliare, al quale è attribuito un ruolo di rilievo nell’ambito delle funzioni del risparmio familiare.
Non stupisce dunque che, con l’uscita dalla crisi, le transazioni immobiliari abbiano conosciuto una netta ripresa: emerge quella domanda potenziale che non aveva potuto esprimersi e che potrebbe anche, in futuro, generare nuove transazioni.

Sebbene non si raggiungano i livelli dell’inizio del secolo, i soggetti abbastanza o molto soddisfatti dell’investimento immobiliare sono stabili a livelli di poco inferiori al 90% (87,6%).
Il saldo soddisfatti-insoddisfatti si mantiene ormai da un quadriennio su valori vicini ai quattro quinti del campione.

Dopo il calo legato al double dip del 2012, che aveva visto anche allargarsi l’area di «incertezza» degli abbastanza soddisfatti, sono meno del 4% coloro che non sanno esprimersi (avevano superato il 15% nel 2012), mentre, in tutta la serie storica, chi è poco o per nulla soddisfatto raramente supera il 10%.

La parte inferiore della figura mostra che il 3,8% del campione ha acquistato un immobile.
Tale quota raggiunge il 7,8% nella fascia d’età più giovane e il 5,4% in quella successiva, per via probabilmente della costruzione di nuove famiglie.

Forse per lo stesso motivo, anche i nuclei costituiti da un solo componente mostrano un valore superiore alla media (4,5%), che è, peraltro, condiviso con le famiglie numerose (4,6%).
La generazione dell’euro non si discosta molto dalla media: il 3,3% ha acquistato un immobile nell’ultimo anno.

Le motivazioni per l’acquisto vedono la prevalenza dell’abitazione principale, soprattutto per le fasce d’età più giovani, mentre la casa per vacanze assume rilievo tra i 45-54enni e l’immobile per investimento fa registrare quasi la metà degli acquisti nelle famiglie più numerose.

Può essere forse interessante proporre anche quest’anno il tentativo, per quanto approssimativo, di quantificare la domanda potenziale di case.
Il 6,4% del campione intende effettuare un investimento immobiliare nei prossimi due anni, il che corrisponde a una potenzialità di circa 1,6 milioni di transazioni; di queste, circa 300.000 sono già programmate nel corso dei successivi dodici mesi.

La generazione dell’euro potrebbe portare 277.000 transazioni nel biennio, delle quali 46.000 già programmate nei prossimi dodici mesi, mentre la fascia d’età a più alto potenziale è quella tra i 35 e i 44 anni, che varrebbe 448.000 nuovi acquisti, di cui 97.000 programmati nei prossimi dodici mesi.

Si consideri che in Italia nel 2019 si sono registrate 603.000 transazioni di edilizia abitativa, e che erano 786.000 prima della crisi del 2008.
Una potenzialità di 1,6 milioni nei prossimi 24 mesi potrebbe ben riportare i livelli vicini a quelli pre-crisi: in questa prospettiva, il sistema bancario riveste sicuramente un ruolo di rilievo.

Quest’ultimo non solo svolge un ruolo «abilitante» sia dell’offerta sia della domanda di immobili, ma ha anche una funzione di screening, che è tanto più efficace quanto più è curato il rapporto con l’utente.
Da questo ruolo le banche italiane non hanno mai abdicato, ponendo un argine allo sviluppo di condotte predatorie nel credito immobiliare.

Il 18,5% delle famiglie ha oggi un mutuo in corso, una quota che sale al 27,5% per la generazione dell’euro, è relativamente più elevata nelle due classi di reddito più alte e scende a meno del 10% nella classe di reddito più bassa.
Meno della metà del campione ha acquistato la propria abitazione contraendo un mutuo; tra chi ha un mutuo in corso, però, l’80% lo ha contratto per la propria casa, che rimane, dunque, la ragione principale per indebitarsi.
In questo la generazione dell’euro non differisce dal resto dal campione.

I mutui a tasso fisso sono prevalenti, cosa sensata in un mondo di tassi bassi che incontrano serie difficoltà a scendere ulteriormente; ma, si noti, solo il 15,6% dei mutui per l’abitazione è stato sottoscritto nell’ultimo decennio.
Il 9,9% delle famiglie fronteggia una rata di mutuo che incide per più del 30% sul reddito: tale indice di «patologia» è decisamente più basso per la generazione dell’euro (5,2%) e per i redditi più bassi.

Tra chi ha chiesto un mutuo negli ultimi dodici mesi, solo poco più di un terzo (37,5%) ha avuto problemi a ottenerlo, il che testimonia sì una certa attività di selezione, ma non una difficoltà generalizzata delle famiglie nell’accesso al credito.


Fonte: intesanpaolo.com e Centro EINAUDI – 1 dicembre 2020